Contenitori plastici in polietilene, in polietilene tereftalato (PET) o in cloruro di polivinile (PVC) abbandonati nell’ambiente, impiegano da 100 a 1.000 anni per essere degradati
A causa della scorretta gestione della filiera, sia nella fase produttiva sia nelle successive fasi relative a consumo, riciclo e smaltimento, buona parte dei 396 milioni di tonnellate di plastica prodotta ogni anno nel mondo finisce dispersa nell’ambiente, sotto forma di detriti negli oceani e sulle spiagge o sotto forma di microparticelle, nelle riserve idriche, nell’aria, nei terreni agricoli, nel corpo umano. Il rifiuto di plastica che viene recuperato può essere riprocessato come materiale plastico secondario. La plastica non riciclata viene in buona parte distrutta termicamente attraverso l’incenerimento, con o senza recupero energetico, oppure viene smaltita all’interno di una discarica, o dispersa nell’ambiente.
Cosa sono le microplastiche
Il micron o micrometro (µm) corrisponde alla millesima parte del millimetro. Secondo l’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), le microplastiche sono particelle solide di dimensioni comprese tra 0,1 e 5.000 µm (ossia 5 mm); le nanoplastiche, invece, sono particelle più piccole con dimensioni comprese tra 0,001 e 0,1 µm. Le microplastiche, costituite soprattutto da polimeri di polietilene (PE), polipropilene (PP), polistirene, PET e PVC, derivano principalmente dalla parziale degradazione dei rifiuti di plastica sparsi negli oceani, sottoposti nel tempo all’abrasione fisica e all’esposizione ai raggi ultravioletti.
Nell’ambiente terrestre possono derivare da prodotti utilizzati nella cosmesi o per l’igiene personale (microsfere di plastica inserite nei detergenti, dentifrici, creme da barba) o dalle fibre dei tessuti sintetici (poliestere, acrilico e nylon), erose a seguito dei lavaggi e rinvenute quindi nelle acque reflue. Probabilmente non c’è più alcun luogo sulla terra privo di contaminazioni da microplastiche. Si trovano ovunque e attraverso l’ingestione di alimenti contaminati sono entrate nella catena alimentare umana. Sotto forma di fibre, frammenti, granuli e particelle, la loro presenza è ormai documentata negli organismi zooplanctonici, nei prodotti ittici (pesci, gamberetti e soprattutto molluschi bivalvi), nella carne, nel sale, nel miele, nella birra, nelle acque potabili e nelle acque minerali.
Rischi per la salute
Le conoscenze sulla tossicità delle microplastiche risultano tutt’ora frammentarie e limitate. Ancora poco sappiamo sulla loro degradabilità naturale, sul loro impatto ambientale, sui meccanismi assorbitivi nell’uomo, sulle conseguenze per la salute a seguito del loro accumulo tissutale. Sappiamo comunque che microplastiche inferiori ai 150 µm (0,15 mm), in particolar modo le nanoplastiche, possono attraversare l’epitelio intestinale, entrare nel sistema linfatico o nel flusso sanguigno, quindi migrare in altri organi, con potenziali effetti negativi sulla salute: embolizzazione di piccoli vasi, processi infiammatori e reazioni immunitarie.
Secondo recenti studi, il rischio tossico delle microplastiche rimane soprattutto correlato alla loro capacità di accumulare e trasportare interferenti endocrini, tra cui i policlorobifenili, idrocarburi policiclici aromatici, pesticidi, alcuni ftalati e residui di composti impiegati in alcuni imballaggi (bisfenolo A), potenzialmente responsabili di aumentare il rischio tumorale e altre patologie a livello endocrino, metabolico e riproduttivo. Altri studi, inoltre, confermano che i detriti di plastica rappresentano un substrato ottimale per la proliferazione di batteri e altri microrganismi, alcuni dei quali patogeni.
Meno PET e più PLA
Quasi tutte le bottiglie di plastica delle acque minerali sono fatte di PET e i tappi di PE e PP (le sostanze da cui derivano le microplastiche rinvenute nell’acqua imbottigliata). Gli ostacoli che impediscono la conversione industriale delle bottiglie in PET in bottiglie di bioplastica biodegradabile sono in parte legati al maggior costo di queste ultime rispetto al contenitore in PET. Inoltre, la filiera di raccolta non sempre è in grado di riconoscere il polimero in PLA, che potrebbe pertanto finire erroneamente nell’inceneritore, oppure, se riciclato assieme alla plastica convenzionale, potrebbe compromettere le caratteristiche tecniche delle plastiche secondarie.
Secondo il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), le motivazioni per cui 9 italiani su 10 bevono acqua minerale sono molteplici: perché è buona e piace, perché fa bene alla salute, perché è sicura, perché è comoda e conveniente. Insomma, l’acqua minerale è diventata quasi un emblema dell’Italian food, un modo di bere sotteso di piacere, salutismo, apprezzamenti e fiducia. Al contrario, dell’acqua di rubinetto che, nonostante sia ormai accessibile alla totalità della popolazione, viene tutt’oggi consumata e gradita solo dal 29% delle famiglie italiane (dati ISTAT 2018). Con una media pro-capite di 221 litri l’anno e una spesa annua di circa 140 Euro a famiglia, il nostro Paese conserva da anni una leadership mondiale nei consumi di acqua minerale in bottiglia.
Da parte sua, Mineracqua (Federazione Italiana delle Industrie e delle Acque Acque Minerali, Naturali, Acque di Sorgente e Bevande Analcoliche) sottolinea che delle 320mila tonnellate di bottiglie di acqua minerale in PET immesse sul mercato nel 2018, quelle non recuperate (e quindi disperse nelle discariche o nell’ambiente), ammonterebbero solo a 30mila tonnellate. Inoltre, negli ultimi 10 anni, a seguito della riduzione del 35% del peso dei contenitori, l’immissione di PET sul mercato sarebbe rimasta pressoché invariata. Da queste dichiarazioni, tuttavia, traspare un ottimismo in parte ingiustificato. Una produzione annuale di quasi 15 miliardi di litri di acque minerali (e di sorgente), per il 70% in bottiglie PET, anche se più leggere e con più PET riciclato, rimane pur sempre eccessiva e pertanto insostenibile per un territorio come il nostro. Senza peraltro attenuare, le apprensioni salutistiche per le diverse centinaia di microframmenti di plastica, che ingeriamo ogni settimana attraverso il cibo, l’acqua di rubinetto e soprattutto l’acqua in bottiglia.
Ridurre la contaminazione
L’85% dei rifiuti marini rinvenuti sulle spiagge dei Paesi dell’Unione Europea è di plastica; tra questi il 50% è costituito da oggetti “usa e getta”. Al fine di ridurre la produzione dei prodotti in plastica contrastandone contemporaneamente la dispersione nell’ambiente, la Direttiva Europea 2019/904 ha stabilito che, entro il 2021, gli Stati membri dovranno vietare l’uso di alcuni prodotti in plastica monouso: posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati, bastoncini per palloncini, plastiche ossi-degradabili e contenitori per alimenti e tazze in polistirolo espanso. Entro il 2029, inoltre, gli Stati dovranno raccogliere attraverso la differenziata il 90% delle bottiglie di plastica; entro il 2025, tali bottiglie dovranno contenere almeno il 25% di contenuto riciclato, per passare al 30% entro il 2030. La direttiva, nella sostanza, promuove processi di economia circolare che sostengono il riutilizzo dei materiali plastici in successivi cicli produttivi ed una ridotta produzione dei rifiuti.
L’etica ambientale esige che ognuno faccia la sua parte in difesa della sostenibilità, adottando stili di vita e modelli di consumo più eco-friendly. A tal proposito, il prospetto che segue può suggerire valide indicazioni.
Ridurre il consumo dei prodotti in plastica e, quindi, la produzione dei relativi rifiuti.
Depositare i rifiuti di plastica negli appositi contenitori per la raccolta differenziata, senza abbandonarli nell’ambiente.
Favorire l’utilizzo di borraccia di alluminio, da riempire al rubinetto o fontanelle, al posto di bottigliette di acqua minerale in plastica.
Ridurre l’eccessivo consumo di acqua minerale in bottiglia, superando diffidenza e dubbi nei confronti di qualità e salubrità dell’acqua di rubinetto.
Promuovere l’utilizzo di “casette dell’acqua” per l’approvvigionamento di acqua potabile.
Incoraggiare il consumo dell’acqua di rubinetto o l’impiego dei distributori di acqua potabile depurata anche in ristoranti, mense, uffici e scuole.
Riattivare per le bottiglie il “vuoto a perdere”, sostenendo la conversione industriale delle bottiglie di plastica in PET, in bottiglie di vetro o in bottiglie in PLA.